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Ma quello che
rende volgare (in senso tecnico) la contrapposta opinione del padre non è
l’avere tenuto in poca considerazione la residua utilità del latino: è proprio
la concezione delle materie scolastiche come strumenti utilitari,
un’attrezzeria tecnica che a scuola ci viene consegnata perché «ci servirà»
nella vita. L’inglesuccio che serve a usare il computer lo si impara facilmente
usando appunto il computer; il latino si può imparare solo a scuola e morirà
davvero solo il giorno in cui nessuna scuola lo insegnerà più. L’idea di
quantificarne l’utilità è gemella all’idea di depurare i bilanci pubblici dagli
investimenti per la cultura e dal sostegno a tutte quelle attività che
l’economo considera improduttive e «senza ritorno». Certo, che non c’è ritorno!
La cultura è infatti un viaggio di sola andata; l’unico modo per tornare
indietro è abrogarla.
Un giorno un commissario leggerà i programmi scolastici
con un paio di affilate forbici: quella sera a essere fatto a coriandoli non
sarà il solo latino. La storia, non è forse “morta” per sua stessa definizione?
E la filosofia? E a cosa serve la matematica, a un futuro avvocato o ortopedico?
A cosa servono le lezioni di inglese, quando si sa che l’inglese lo si impara
solo sul posto? La verità è che la scuola è utile né inutile: è a-utile,
un’industria no-profit (la pubblica) di trasmissione del sapere in cui comunità
di due generazioni diverse si scambiano insegnamenti e aggiornamenti su cosa
implichi e cosa significhi essere italiani oggi. Che la scuola sia in crisi lo
dimostrano i risultati elettorali, il tono e la logica del dibattito pubblico,
la carenza di sentimento nazionale, la diffusione epidemica di quella malattia
dell’intelligenza che si chiama furbizia.
Essere italiani
oggi significa anche (e tristemente) legare immediatamente ogni scontentezza a
responsabilità della «classe politica che per decenni» eccetera. Il nesso che
il lettore trova fra il latino come «lingua morta» e «la classe politica a sua
volta morta» non può che ricordare Beppe Grillo e il linguaggio del Movimento
Cinque Stelle. È infatti Grillo ad avere introdotto la categoria terminale
della “morte” nello scontro politico, riprendendo peraltro l’immagine degli
zombie da maestri dell’ antipolitica come Umberto Bossi e il Francesco Cossiga
delle esternazioni.
Il furore contro il passato non ha nulla a che vedere con
alcun tentativo di miglioramento del presente. Se il futuro sarà migliore del
presente, a renderlo tale forse non sarà qualcuno che ha studiato latino, ma
certamente sarà qualcuno che a scuola ha trovato ragioni di amore verso lo
studio. Perché l’amore per lo studio, quello non passa: e serve, eccome se
serve.
Visto che a buttarla in politica è stato il lettore, corre l’obbligo di
ricordare che Silvio Berlusconi ha sempre formato i suoi attivisti (quelli del
marketing delle sue aziende, ancor prima di quelli politici) dando loro
un’istruzione fondamentale: «l’italiano di ogni età, il nostro potenziale
cliente è uno scolaro delle medie inferiori, e non siede neppure nei primi
banchi». Ecco. Suo figlio, signor Chiassarini, anche grazie al suo latinorum si
avvia a uscire dall’incantamento di un’ideologia semplice e più attraente del
Paese dei Balocchi, che esorta a odiare la noia, l’insofferenza, l’indignazione
spicciola, l’egoismo totalitario, l’attenzione esclusiva per il proprio
tornaconto, l’intolleranza verso ogni ostacolo che impedisce il soddisfacimento
immediato delle proprie pulsioni. Le dispiace così tanto?
Oggi Grillo ha
problemi di quorum, Berlusconi invoca la legittima suspicione, esistono
studenti dodicenni che amano studiare. Morti non siamo: tutt’altro.(qui tutto l'articolo)
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