Wednesday 21 October 2015

quando chi informa amplifica (se non inventa dal nulla) normali divergenze di opinione.

Per alcuni giornali italiani (Repubblica, il Giornale, Libero, il Tempo, più di altri), i criteri di scelta delle titolazioni degli articoli – e a volte degli articoli stessi – sono soprattutto due: paura e zizzania. Se voi una mattina li leggete ignorando i titoli orientati da questi due messaggi, impiegate davvero poco tempo.
Della paura si sa: allarme, rischi, pericoli, ipotesi nefaste, cose da temere, possibilità sgradevoli, creano un repertorio che va tecnicamente sotto il nome di “terrorismo mediatico” e che a volte si avvicina alla fattispecie giuridica del “procurato allarme”, ampiamente familiare a esperti e lettori. Le titolazioni ci investono molto, selezionando negli articoli quello che può generare questi effetti e anche creandolo artificiosamente quando non c’è. L’idea è che ciò che genera paura e preoccupazione – ma anche indignazione e collera conseguenti – attragga di più l’attenzione dei lettori, soprattutto in tempi di crisi dell’attenzione dei lettori. La conseguenza è un quotidiano innalzamento della soglia della paura – ci si abitua a tutto – che costringe ogni giorno a dire cose più paurose e dirne di più.
L’altro investimento che queste testate fanno massicciamente è sullo scontro, il litigio, con conseguente produzione di violenza – verbale, di solito: ma dagli effetti anche molto concreti – tra attori i più vari: con l’obiettivo di coinvolgere la curiosità dei lettori sullo spettacolo che ne deriva. Se ci pensate, non è niente di nuovo, dal Colosseo in poi, passando per lo sport e per i più simili meccanismi di scelta degli ospiti ai talkshow televisivi: più la competizione è accesa e dagli effetti imprevedibili, più il pubblico la segue. La bonaccia, la norma, la concordia, non fanno spettacolo e non attraggono lettori. Questo spiega perché appena insediato chiunque in qualunque ruolo si trovi ed esalti qualcuno che lo attacca, perché i governi siano sempre a un passo dalla crisi e dilaniati da tensioni interne, perchè i sondaggi dicano sempre che qualcuno sta andando male, perché le dichiarazioni polemiche ottengano grandi – e travisati – virgolettati, perché ogni sodalizio professionale o personale debba nascondere una tensione o un tradimento. È rottura, è crisi, è polemica, ai ferri corti, punta il dito contro, è lite, c’è sempre qualcuno che attacca qualcun altro, e una scissione incombente. E anche in questo caso, tutto questo alimenta a sua volta le tensioni e i contrasti stessi: leggete i titoli e dite se non vi sembra che tutto intorno ci sia un inferocimento tignoso generale, e se non vi sentite un po’ inferociti e tignosi anche voi.
Un esempio abbastanza spettacolare di questa strategia della tensione è stato il modo con cui ho letto riportata ieri la notizia dell’assoluzione di Erri De Luca. Storia la cui sintesi ragionevole – e qualcuno l’ha posta in questi termini, per fortuna – era questa: eccitato polverone creato a fini circensi da diversi soggetti interessati intorno a un’interpretazione sciocca del reato di istigazione a delinquere (i reati di opinione non c’entravano niente), polverone che è stato infine spazzato via da una sentenza, e quindi tutti a casa, circolare, festa finita. E qui il meccanismo sopracitato si è mostrato in tutta la sua precisione ed efficacia: investendo immediatamente – con titoli e interviste e commenti – sull’accusa di De Luca: “Gli intellettuali non mi hanno difeso”.
E per un altro po’ siamo coperti.

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