le colpe di noi padri


l'analisi perfetta degli errori di noi baby boomer. Grande Polito sul Corriere della sera di oggi:
Dunque, ricapitoliamo. I nostri figli hanno diritto ad essere fuori corso anche dopo i 28 anni senza che austeri ministri li definiscano «bamboccioni» o frivoli viceministri diano loro degli «sfigati». Però, a 28 anni, hanno diritto a un posto di lavoro non solo stabile e comparabile alle loro aspirazioni, il che è ragionevole, ma anche inamovibile e sorvegliato da un giudice ex articolo 18.
Hanno inoltre diritto a una facoltà nel raggio di 20 chilometri da casa, così che non debbano vivere lontano dalla famiglia, e dunque hanno diritto a non fare quei «Mcjob» (commessi, camerieri, pony express), che i loro più sfortunati coetanei americani sono costretti ad accettare temporaneamente per mantenersi agli studi. Infatti i nostri figli non devono mantenersi agli studi, perché lo Stato chiede a ciascuno di loro tra i mille e i duemila euro l'anno mentre ne spende in media settemila (e molto di più per formare, per esempio, un medico); dunque a mantenerli agli studi ci pensa la fiscalità generale, cioè le tasse pagate anche da chi i figli all'università non li manda. Frequentando l'ateneo con comodo e senza fretta, i nostri figli hanno anche diritto a che il valore legale della loro laurea sia identico a quello di chi la laurea se l'è sudata un po' di più, magari emigrando, magari in cinque anni, magari in un'università in cui i 110 non fioccano dal cielo, perché in una società veramente egualitaria tutte le lauree devono essere uguali come tutti i gatti di notte devono essere bigi. Se poi i nostri figli per caso volessero continuare la loro carriera universitaria dopo la laurea, hanno diritto a non farlo all'estero, lì dove fuggono i cervelli, ma in patria, lì dove ammuffiscono i cervelli. Naturalmente, hanno infine il diritto di protestare contro questo stato di cose e contro chi ruba loro il futuro, «Occupyando» qua e là tra gli applausi dei contestati medesimi.
Questo elenco di «diritti» può apparire paradossale, ma è quello che si evince dal dibattito pubblico che in queste settimane si è finalmente acceso sulla questione giovanile (fino a qualche mese fa verteva di più su temi come il mestiere di velina o l'età dell'emancipazione sessuale). Diciamoci la verità: il senso comune degli italiani, in quanto genitori, è questo. Al punto che perfino un governo di professori e di liberali si è ritratto inorridito di fronte all'ipotesi di cancellare il valore legale del titolo di studio, cavallo di battaglia dei professori liberali dai tempi di Einaudi. A questo universo morale in cui non compare mai la parola «dovere», o «responsabilità», si deve aggiungere una crescente condanna popolare e mediatica per il «successo», sempre più considerato solo un'altra manifestazione della tanto deprecata ineguaglianza, quasi come se non si potesse avere successo senza una raccomandazione, un'illegalità, un'evasione fiscale. Ne esce così rafforzato all'inverosimile un malinteso senso di protezione verso i nostri figli; malinteso perché in realtà tradisce una sfiducia collettiva nei loro mezzi, una paura di lasciarli nuotare con le loro forze e il prima possibile, che a sua volta contribuisce a deprimere la loro autostima, assuefacendoli all'insuccesso col metadone di una potente giustificazione morale e sociale. Senza capire che l'unico vero antidoto all'ineguaglianza è la lotta del merito e del talento per emergere negli anni dell'educazione, affrancandosi così dalla condizione sociale, familiare o geografica.
Protagonisti di questo paternalismo (o maternalismo) non potevamo che essere noi, la generazione dei baby boomer , la prima generazione ad aver disobbedito ai padri e la prima ad aver obbedito ai figli. Invece che fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti della nostra prole, sempre pronti a batterci perché venga loro spianata la strada verso il nulla, perché non c'è meta ambiziosa la cui strada non sia impervia. È un grande fenomeno culturale, e sempre più un carattere nazionale, forse in qualche relazione contorta e perversa con il calo delle nascite, come se ne volessimo pochi per poterli coccolare meglio e più a lungo. Ed è un grande fattore di freno alla crescita, non solo economica ma anche psicologica della nazione. Mentre negli Usa infuria il dibattito sulle mamme-tigri, asiatiche che spingono i figli fin oltre il limite della competizione con se stessi e con gli altri, da noi comandano i papà-orsetti, pronti a lenire con il calore del loro abbraccio il freddo del mondo reale, così spietato e competitivo.




Disoccupazione giovanile, articolo 18. Prima di discuterne, forse bisogna ricordare alcune verità.
La prima è che i giovani disoccupati non sono affatto 1 su 3, come da mesi si sente ripetere senza tregua, ma 1 su 14. Per l’esattezza: non il 33%, bensì il 7,1% della popolazione nella fascia dai 15 ai 24 anni. Più o meno quanti erano nel 2006-2007 quando l’economia cresceva, molti di meno che negli Anni Novanta e nei primi Anni Duemila. In Spagna, i giovani disoccupati sono circa il triplo che da noi (20%), nel Regno Unito il doppio (14%), in Grecia e Portogallo sono il 12%, in Svezia e Danimarca il 10%, in Francia, Finlandia e Belgio l’8%.
Fra i Paesi con cui di solito ci compariamo, solo la Germania sta meglio di noi, con il suo 4,8% di giovani disoccupati.

Da dove salta fuori l’idea che «un giovane su tre è senza lavoro»? Deriva dal fatto che, anziché prendere come base il numero totale di giovani, si prende il numero di giovani «attivi» sul mercato del lavoro (occupati o in cerca di lavoro), che in Italia sono appena il 25% del totale, mentre in Paesi come la Germania o il Regno Unito sono più del doppio. Poi, nel fare i titoli su giornali e televisioni, ci si «dimentica» che si sta parlando di una minoranza attiva (1 giovane su 4), e si parla del tasso di disoccupazione giovanile come se descrivesse la condizione dei giovani in generale, anziché quella dei giovani che hanno scelto di lavorare.

E qui veniamo alla seconda verità che, a quanto pare, non incontra il favore dei media. L’anomalia dell’Italia non è che i suoi giovani non trovano lavoro, ma il fatto che non lo cercano. Fortunatamente non sono presidente del Consiglio, e quindi non sarò costretto a smentire quella che - detta da un politico - suonerebbe come una tremenda gaffe, ma che invece è la pura verità: nel confronto internazionale i nostri giovani si distaccano da quelli della maggior parte dei Paesi avanzati non certo perché più colpiti dalla tragedia della disoccupazione, ma precisamente per la ragione opposta: perché ritardano enormemente il loro ingresso nel mercato del lavoro.

Nei Paesi normali ci si laurea intorno ai 22-23 anni, e si comincia a lavorare relativamente presto, spesso contribuendo al bilancio familiare e alle spese dell'istruzione, che non sono basse come da noi. In Italia ci si laurea tardi, spesso in prossimità dei 30 anni, e si comincia la ricerca di un lavoro a un’età in cui negli altri Paesi si è accumulata una cospicua esperienza professionale. E quel che è ancora più drammatico è che, nonostante la loro relativa assenza dal mercato del lavoro, i giovani italiani sono molto indietro nei livelli di apprendimento già a 15 anni (vedi i risultati dei test Pisa), e hanno maggiori difficoltà a conseguire una laurea, per quanto a lungo ci provino. E infatti la gioventù italiana un primato ce l’ha: è quello del numero di giovani perfettamente inattivi, in quanto non lavorano, né studiano, né stanno apprendendo un mestiere (sono i cosiddetti Neet: Not in Education, Employment or Training).

Questo, sfortunatamente, è lo scenario sul quale si sta aprendo la discussione sul mercato del lavoro. Uno scenario di cui i giovani non sono direttamente responsabili, perché - come ha giustamente osservato Antonio Polito qualche giorno fa sul Corriere della Sera - se le cose sono arrivate a questo punto lo si deve innanzitutto «a noi, la generazione dei baby boomer, la prima generazione ad aver disobbedito ai padri e la prima ad aver obbedito ai figli».

Siamo noi che, con i nostri partiti e sindacati, abbiamo edificato un sistema per garantire il lavoro, l’inamovibilità, la pensione ai più organizzati fra noi stessi. Siamo noi che, nella scuola e nell’università, abbiamo permesso che si abbassasse drammaticamente l’asticella del livello degli studi, trasformando istituzioni un tempo funzionanti in vere e proprie fabbriche di ignoranza. E siamo sempre noi che, nella famiglia, «invece di fare i genitori ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti della nostra prole, sempre pronti a batterci perché venga loro spianata la strada verso il nulla» (sono sempre parole di Polito).

Ed eccoci al punto. Io spero e confido che il governo Monti non perda per strada la determinazione che finora lo ha indotto a promettere una vera riforma del mercato del lavoro. Ma nessuna riforma cambierà davvero le cose se anche noi, tutti noi, giovani e adulti, non ci renderemo conto che un intero modo di pensare, un’intera mentalità tipica del nostro Paese è giunta al capolinea. Continuare come in passato non è più possibile. Far credere ai giovani che potranno godere degli stessi privilegi della nostra generazione significa solo prolungare l’inganno che ci ha condotto alla situazione attuale. Una situazione retta da un patto scellerato fra due generazioni: la generazione dei padri e delle madri, iperprotettiva e per nulla esigente, e la generazione dei figli, spensierata finché l’età e le risorse familiari glielo consentono, e disperata quando deve cominciare a marciare sulle proprie gambe.

Il mercato del lavoro italiano, da decenni diviso fra garantiti e non garantiti, è il luogo nel quale il patto scellerato ha preso forma e si è cristallizzato. Di quel patto scellerato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è il tassello principale, ma solo il simbolo. Farlo lentamente evaporare non potrà produrre né le devastazioni previste dai sindacati, né la crescita immaginata dagli imprenditori. E tuttavia non toccarlo per niente, oltre a mandare un segnale negativo ai mercati, rischierebbe di rimandare ancora una volta il momento in cui - finalmente - cominceremo a fare un vero bilancio e ad affrontare a viso aperto i nostri figli.

I quali hanno tutto il diritto di entrare in un mercato del lavoro più dinamico e più equo, in cui ci siano più opportunità e l’inamovibilità dei padri non sia pagata dalla precarietà dei figli. Ma hanno anche il diritto di sapere quel che finora gli abbiamo nascosto: che studiare sotto casa, poco, male, e irragionevolmente a lungo conforta le loro mamme ma non spiana loro alcuna strada.



Luca Ricolfi

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